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I pesi massimi della disinformazione

Il dibattito sulle cosiddette fake news e sulla post verità, divenuto attuale con l’elezione di Donald Trump alla presidenza USA, è arrivato anche in Ticino. Quotidiani e portali ci propinano articoli al riguardo con cadenza quasi quotidiana, e giornalisti e opinionisti sembrano generalmente concordi nell’affermare che il mix micidiale di bufale e social network sia destinato a distruggere la stampa.

Intanto, nella vicina Penisola c’è chi, come Giovanni Pitruzzella, arriva addirittura ad invocare l’introduzione di un servizio di censura per far fronte al fenomeno.

Nella Svizzera italiana, le voci critiche contro questi deliri liberticidi sono rare e paradossalmente si levano principalmente da destra, ad immagine per esempio di Marcello Foa. A sinistra, eccezion fatta per l’intervista a Vladimiro Giacché ripubblicata la settimana scorsa da sinistra.ch, tutto tace. Anzi, peggio: l’ormai (tristemente) noto portale gas.social si allinea in pieno con quel “pensiero dominante” a cui finge di porsi come “alternativa”. Particolarmente rivelatore è l’articolo pubblicato recentemente dal prolifico Jacopo Scarinci, nel quale si afferma che l’influenza della rete andrebbe “sgonfiata” per investire maggiormente in un giornalismo serio – quello di Politico, Repubblica e Le Monde per intenderci, che poi è esattamente lo stesso del Giornale e di Le Figaro, di Le Temps e del Tages Anzeiger.

Nessuna riflessione sul fatto che da sempre le grandi testate e le agenzie d’informazione europee e americane stravolgano le notizie a loro piacimento. E soprattutto nessuna menzione – in nessun articolo del GAS! – dell’ultimo giornale europeo che fa del giornalismo di inchiesta, critico ed indipendente: vale a dire Le Monde diplomatique. Per colmare questo vuoto nel dibattito ticinese sulle fake news, ecco dunque la traduzione di un pezzo di opinione pubblicato sul numero di gennaio del “Diplò”, a firma di Pierre Rimbert.

Damiano Bardelli


snopes-fake-news-sitesCon la sconfitta di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali, le direzioni dei giornali di New York, Londra o Parigi scoprono una verità allarmante. I media mentono. Ma non loro, ovviamente: gli altri. Dei giornali online vicini alla destra radicale americana, dei blog oscuri creati in Macedonia, dei “troll” che pubblicano delle bufale (fake news) a palate: la ministra della giustizia avrebbe ordinato di “cancellare immediatamente tutti i tatuaggi rappresentanti la bandiera confederata”, il papa sosterrebbe Donald Trump, la Clinton dirigerebbe una rete di pedofili con base nel retrobottega della pizzeria Comet Ping Pong a Washington…

Queste storielle, trasmesse da Facebook, Twitter e Google avrebbero alterato il giudizio delle menti semplici che non leggono tutti i giorni il New York Times.

La stampa virtuosa non aspettava altro per scendere in trincea. “È una minaccia per la pertinenza e l’utilità stessa della nostra professione” afferma il 22 novembre 2016 la reporter-diva di CNN Christiane Amanpour. “Il giornalismo e la democrazia sono in pericolo di morte.” Un’opinione condivisa dal New York Times, di cui un editoriale-fiume intitolato “Verità e menzogne nell’era Trump” (10 dicembre 2016) incrimina i social network e deplora l’indifferenza popolare nei confronti delle informazioni affidabili – crudele ironia, la versione online del testo era condita da una pubblicità di un sito di fake news che annunciava la morte dell’attore Alec Baldwin. A credere al Washington Post (24 novembre 2016), l’epidemia di false notizie proverrebbe piuttosto da una “campagna di propaganda sofisticata” guidata dalla Russia; ma l’inchiesta si basa su delle fonti così poco affidabili da esser stata a sua volta denunciata come un “caso chimicamente puro di fake news” da parte del giornalista Glenn Greenwald (The Intercept, 26 novembre 2016).

È chiaro: prima dell’entrata in campagna di Trump, la democrazia e la verità trionfavano. Certo, i media vivevano grazie alla pubblicità che prometteva il benessere ai consumatori di Coca-Cola, e trasmettevano delle “notizie” fabbricate ad arte dalle agenzie di comunicazione. Ma le “false notizie” si chiamavano “informazioni”, visto che erano pubblicate in buona fede da giornalisti professionisti.

Quelli che ingannarono la Terra intera nel dicembre 1989 con i finti carnai di Timisoara, in Romania; quelli che diffondevano senza verifiche, nell’ottobre 1990, la favola dei soldati iracheni che distruggevano le incubatrici di un reparto maternità in Kuwait con lo scopo preciso di preparare l’opinione pubblica ad un intervento militare; quelli che rivelavano sulla prima pagina di Le Monde (8 e 10 aprile 1999) il piano “Ferro di cavallo” ordito dai Serbi per liquidare i Kosovari – un’invenzione dei servizi segreti tedeschi destinata a legittimare i bombardamenti su Belgrado. Senza dimenticare le eminenze del New York Times, del Washington Post o del Wall Street Journal, che trasmisero nel 2003 le prove immaginarie della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq, con lo scopo di aprire la strada alla guerra.

Ormai, il loro monopolio dell’influenza si sgretola, e lanciano maledizioni a destra e a manca: i pesi massimi della disinformazione s’indignano che dei dilettanti della bufala non abbiano chiesto il loro permesso per prendere per il naso i lettori.

Pierre Rimbert

Fonte: Le Monde diplomatique, gennaio 2017