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73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia

“La donna partita”, toccante film sociale in una superba fotografia in bianco e nero di Lav Diaz ha meritatamente vinto il Leone d’Oro di Venezia 73. È una pellicola di solo quattro ore, rispetto alle otto dei precedenti film dell’autore, varrebbe la pena che la televisione trasmettesse i film del regista filippino a puntate, facendolo finalmente conoscere al grande pubblico. Il perfetto “La región salvaje” di Amat Escalante ci racconta la dura realtà sociale messicana e ha vinto insieme a “Paradiso” dell’insuperato maestro russo – sovietico Andrej Končalovskij, che ha portato la storia della barbarie nazista e della Resistenza e vittoria del popolo sovietico, il Leone d’Argento ex aequo per la regia.

Molti altri i film che devono essere ricordati.

I geniali Peter Brosens e Jessica Woodworth, già autori del capolavoro “La quinta stagione”, portano a Venezia 73 l’arguta e intelligente commedia “Il re dei belgi”, una scanzonata riflessione sulla fragilità del Belgio, nazione in cui i fiamminghi rivendicano un separatismo dalle forti tinte egoiste. Nel film un sovrano incolore, Nicola III, si trova a Istanbul nel quadro di un incontro bilaterale volto a portare in dono una copia in miniatura dell’Atomium brussellese, quando una tempesta solare azzera telefonia e voli aerei, proprio mentre gli è stata comunicata la secessione dei valloni francofoni, stufi del razzismo dei fiamminghi. Il sovrano decide allora di tentare un rocambolesco rientro in patria, eludendo il protocollo turco, finendo in Bulgaria tra le ragazze di un coro tradizionale che inneggiano ai comunisti e alla gioventù del partito, i komsomoli dai quattrodici anni in su e i pionieri dai sei ai quattordici anni, cantando sotto un grande monumento dalla possente stella rossa e in Serbia tra vecchi combattenti jugoslavi e poi serbi, che organizzano pantagrueliche mangiate innaffiate dalla rakija. Ad accompagnare il monarca un po’ di funzionari del protocollo e un regista inglese che non disdegna i piaceri della vita. Ogni fotogramma è contrappuntato dalla musica, tra tutte le suonerie dei cellulari con l’inno europeo, il grande Bach per doppio clavicembalo, il Bolero di Ravel ad accompagnare la notte campagnola ed etilica. Alla fine la sgangherata combriccola recupera una barchetta in Montenegro e arriva in Albania, scambiandola per l’Italia. La ripresa delle telecomunicazioni riporterà la vita di tutti nel grigiore dell’ufficialità, ma il seme della libertà dispiegata fuori da ogni protocollo indica la sola strada percorribile per l’esistenza dei singoli, delle nazioni e dei popoli. Un ammonimento che i registi regalano agli spettatori, probabilmente con la speranza che si facciano cittadini consapevoli.

Con terribile crudezza Ulrich Seidl denuncia in “Safari” la stupidità umana dei cacciatori di animali della savana, girando in Namibia e Sudafrica un film documentario nel suo classico stile sobrio e acuto, tra bavaresi e austriaci innamorati delle armi per evidente compensazione psicologica delle loro frustrazioni e per di più profondamente razzisti nei confronti delle popolazioni locali. Il risultato è violentemente urticante e giustamente accusatorio, senza pietà e senza possibile redenzione.

Finalmente a Venezia, primo tra i grandi festival internazionali, la videoarte diventa cinema riconosciuto e ammesso in concorso. “Spira Mirabilis” dei milanesi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti è un’opera contrappuntata  dalle parole di Borges in cui la potente forza comunicativa di ciascun fotogramma restituisce per intero l’armonia della terra e la necessità della musica, la geometria della natura e quella dell’uomo. La medusa immortale e autorigenerantesi è così il paradigma di una forma che si ripresenta negli xilofoni metallici tondi e concavi, la ricerca del senso invita all’assoluto e allora le vette del Duomo di Milano restituiscono la stessa profondità del rispetto del creato trasmessaci dalle tradizioni dei pellirosse, perseguitati dal governo statunitense dopo prolungati e devastanti stermini. Ecco quindi che le immagini delle aggressioni subite dai nativi americani negli anni ’70 si ricongiungono con la sciamanica storia della creazione da loro tramandata e che apre il film, una sintonia e una cointeressenza del mondo e i suoi elementi, aria, acqua, terra, fuoco, che è al contempo cura del corpo e dell’anima, come dimostrano le immagini della musicoterapia nei reparti di pediatria intensiva degli ospedali. È un’armonia arcana, come l’assolutamente scientifica spirale logaritmica, evoluzione cartesiana di quella archimedea, che unisce poeticamente il film, in cui i suoni della natura e l’agire dell’uomo interagiscono in una sintesi capace di diventare grande cinema, con buona pace dei cineanalfabeti che hanno bollato questa opera significativa e sorprendente come “non cinema”.

Deludente Paolo Sorrentino con “Il papa giovane”, serie per la televisione girata nel classico stile barocco del regista, il risultato è di grande qualità artistica nella forma, ma di molto dubbia qualità nei contenuti. Jude Law interpreta un papa belloccio e un po’ fuori di testa, schiacciato tra il realismo della vita quotidiana dei fedeli e un feroce conservatorismo, verso il quale propenderà con cupezza ieratica, a partire dal nome scelto, Pio XIII, richiamo ai pessimi due predecessori con lo stesso nome. Il risultato è forzato, manieristico, irrealistico, per nulla evangelico, temperato solo dalla bravura del cardinal Silvio Orlando, grande manovratore della curia, ma anche appassionato tifoso del Napoli Calcio, per altro come il regista, che infatti guarda a lui con benevola comprensione.

Amanda Kernell presenta una straordinaria opera prima, “Sangue lappone”, dedicata al razzismo, agghiacciante e feroce, che gli svedesi hanno pratico a metà del Novecento contro i lapponi, o meglio i sami, nella loro lingua, accusati di essere ritardati e ladri, confinati in scuole speciali, senza alcun diritto di accedere all’insegnamento superiore e all’università. Una discriminazione che ci viene raccontata attraverso il coraggio e la forza di Elle Marja, interpretata dalla giovanissima e notevole Lene Cecilia Sparrok, una ragazza che scappa ad Uppsala e riesce, vincendo mille asperità, a terminare gli studi. Il funerale della sorella riporterà Elle Marja tra le bellezze artiche, montagne, laghi, cieli, rappacificandola con le sue origini.

“Non guardarmi nel piatto”, ma potremmo dire, “non starmi addosso”, “lasciami vivere”, è la la traduzione del titolo croato “Ne gledaj mi u pijat”, opera prima della regista Hana Jušić, con una protagonista, Marijana, interpretata con bravura e sensualità da Mia Petričević, capace di essere silenziosamente più forte del conformismo, dell’arretratezza culturale e della violenza della Croazia, di oggi che si scaraventano contro di lei in ogni situazione, a casa, al lavoro, nel mondo che la circonda.

In concorso “El Cristo ciego” di Christopher Murray, film in cui il riverbero di dio si rende muto e cieco, nella silenziosa disperazione degli ultimi della terra. Eppure proprio così l’umanità si erge in tutta la sua dignità, più forte del dolore e della pampa del Tamarugal, nel Tarapacà cileno, non lontano da Iquique.

La violenza delle manovre di aggiustamento imposte dall’Unione Europea al Portogallo emergono con inusitata durezza in São Jorge di Marco Martins, girato a Setubal tra gli immigrati brasiliani e africani del quartiere di Bellavista nel barrio Jamaica. Un pugile, già metalmeccanico, dopo la chiusura della fabbrica è costretto a ridursi a esattore dei debiti di una finanziaria per assicurare, o almeno provarci, un futuro al figlio e alla moglie brasiliana. Il contrasto tra la cupezza delle circostanze e la luce interiore dei personaggi confligge nell’asperità di una realtà che si è dimenticata l’uomo e i suoi diritti.

L’israeliana Rama Burshtein, sempre nel solco di una radicalità positiva del sentimento religioso, di fatto un sentimento comune ai monoteismi mediterranei, racconta, allo stesso modo dello splendido “Riempire il vuoto”, come le proprie convinzioni, poco cambia se religiose o ideologiche, quando indirizzare alla vittoria dei valori dell’eguaglianza e del rispetto reciproco, siano grandi motori dell’umanità. Ecco allora che la protagonista della divertente commedia “Attraverso il muro” vincerà ogni perplessità, soprattutto delle persone a lei più vicine, coronando il suo desiderio di affetto.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.