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Il difficile presente dell’Albania tra consumismo esasperato e cannoni della NATO

Torno in Albania in occasione degli ottantacinque anni di Dritëro Agolli, portando alcune copie del mio libro dedicato alla “Letteratura albanese” negli anni del socialismo. Agolli è stato in quei tempi il secondo e ultimo presidente dell’Unione degli Scrittori, succeduto a Dhimitër Simon Shuteriqi, su invito della cui vedova, Munever, ero stato in Albania dieci anni fa.

Appena arrivo la cerco. Abita ancora nella stessa casa che ha condiviso con l’amato marito, partigiano come lei nella lotta antifascista e amico di Anna Seghers, quando entrambi dirigevano le rispettive Unioni degli Scrittori. Solo la via ha cambiato nome, non più “Lavoratori della rinascita”, ovvero coloro che hanno edificato il paese dopo il secondo conflitto mondiale, ma “George W. Bush”, pessima intitolazione, capace tuttavia di dire molto sull’Albania di oggi. Munever ha ora novantadue anni, ma è meravigliosamente intraprendente, vive sola, in piena lucidità e autonomia. Le trasmetto tutta la mia amarezza nel vedere Tirana sempre più vittima del consumismo. Locali, bar, ristoranti. Una città buona per chi può e vuole divertirsi, ma in cui con la scusa della modernità si abbattono i monumenti socialisti, come lo splendido stadio Qemal Stafa, per edificarne uno dai colori nazionali. Un nazionalismo piegato all’alleanza con gli Stati Uniti, di cui sventolano parecchie bandiere per le strade della città, insieme a quelle del Kosovo, dell’Unione Europea e pure della NATO, di cui l’Albania fa parte dal 2009. Munever sconsolata assiste all’affermarsi del capitalismo che dopo un quarto di secolo accresce il numero dei poveri e acuisce le diseguaglianze. Mi racconta di come Bruxelles pretenda costanti dichiarazioni contro il socialismo albanese per ammetterla nell’Unione, di come le televisioni imbastiscano una campagna terribile per convincere le persone a non parlare bene del passato, soprattutto coi turisti, perché questo potrebbe pregiudicare le possibilità albanesi di entrare nell’Unione. Le confermo che infatti, rispetto a dieci anni fa, devo vincere un iniziale muro di diffidenza per poter parlare in serenità con le persone che incontro delle conquiste del socialismo. I giovani sono vittime di questo tempo, sanno poco del passato e non sanno neppure orientarsi non solo nel presente, ma neppure nello spazio, a causa del ridimensionamento dell’insegnamento della geografia. Restano stupiti, tra consapevolezza e tristezza, quando ricordo loro che è il capitalismo ad obbligarli a lavorare pure la domenica, i loro genitori e i loro nonni passavano il giorno di riposo nei cinema, nei teatri e nelle Case del Popolo. Con il dolore negli occhi e la rabbia nella voce Munever mi racconta di trasmissioni televisive in cui Enver Hoxha viene definito un nazista, quando lui insieme a tanti albanesi ha combattuto per la sconfitta del nazifascismo in Europa e per la libertà dell’Albania. La capisco e la abbraccio.

Munever Shuteriqi, partigiana e moglie del primo presidente dell'Unione degli Scrittori Albanesi
Munever Shuteriqi, partigiana e moglie del primo presidente dell’Unione degli Scrittori Albanesi

Chiamiamo Nexhmije Hoxha, oggi novantaseienne, anche lei partigiana combattente contro il nazifascismo e per tutta la vita compagna di Enver Hoxha, tra saluti calorosi, le comunico che ho lasciato per lei a Munever una copia del mio libro e ugualmente ne lascio una per Nasho Jorgaqi, di pochi giorni più giovane di Agolli e che ugualmente chiamiamo e salutiamo. Munever mi racconta di come anche l’associazione dei veterani della guerra partigiana sia stata obbligata a spaccarsi, da una parte coloro che con l’appoggio governativo inventano una frattura tra Resistenza e socialismo e dall’altra chi non accetta questo accomodamento retroattivo, posticcio e non veritiero. Due sono pure le riviste editate, “Veterani”, su carta di qualità per i primi, “Kushtrim Brezash”, su carta ben più economica per i secondi, la stessa su cui il Partito Comunista Albanese edita “Zëri i së vërtetës”. Quando ci lasciamo lo sfavillio notturno di Tirana, che tanto poco ci interessa, furoreggia, ma i sorrisi e gli abbracci tra noi son ben più calorosi e luminosi delle insegne pubblicitarie.

Il 16 ottobre mattina è una giornata nuvolosa, segnata dai rintocchi delle campane cattoliche e ortodosse e dai richiami alla preghiere irradiati dai minareti delle moschee. La presenza religiosa è più massiccia rispetto al passato, ma non è solo la riscoperta di un comprensibile e rispettabilissimo sentimento personale e collettivo, pare piuttosto un espediente “armato” volto ad ancorare alla NATO e ai suoi membri la piccola Albania.

Il 16 ottobre è anche l’anniversario della nascita nel 1908 di Enver Hoxha, che riposa presso il cimitero del Kombinat, il quartiere industriale costruito ai tempi del socialismo e alla cui entrata campeggiava un tempo una imponente statua di Iosif Stalin. Quando arrivo, trovo i compagni del Partito Comunista Albanese molto felici della mia presenza internazionalista. Insieme facciamo alcune fotografie, c’è anche un partigiano novantenne, deponiamo fiori, cantiamo alcune canzoni. Sono tutti molto calorosi e affettuosi, ricordiamo le grandi conquiste del socialismo albanese, la vittoria sull’analfabetismo, il diritto a casa, scuola, lavoro, salute, tutela della vecchiaia, accesso gratuito a cultura e sport, l’elettrificazione del paese, la ferrovia, la meccanizzazione dell’agricoltura, l’industrializzazione.

Quando ci avviamo per tornare a Tirana, un agronomo settantenne, quarantacinquenne alla fine del socialismo, mi invita ad andare a bere un tè con uno dei suoi figli e con sua moglie. Osman Haidari, orgogliosamente iscritto al partito da 52 anni, come mi dichiara con un grande sorriso, abita in un edificio moderno, dagli interni modesti, giusto l’essenziale, quanto può permettersi un pensionato. La sua cultura è vasta e le sue mani nodose e affaticate, in lui lavoro manuale e lavoro intellettuale non sono mai stati disgiunti. Kropotkin sarebbe fiero di lui. Mi presenta Marlen, il figlio, e apprezza che colga subito l’origine del nome, infatti esclamo con entusiasmo: “Marx-Lenin”! Padre e figlio sorridono e confermano, Osman aggiunge che oggi pochi, forse nessuno chiama più i bambini così, ma quando la stella rossa brillava nella bandiera sovrastando l’aquila, era un nome diffuso. Marlen porta male i suoi ventinove anni, con tutta la fatica e la tristezza di un lavoro precario in uno dei duecento call center italiani installati a Tirana per pagare poco i lavoratori e ancora meno le tasse.

Osman mi pone molte domande, a cui rispondo con piacere, ma soprattutto preferisco ascoltarlo. Riflette su come oggi la proprietà di tutti i mezzi di produzione sia in mano ai privati e di come questo interessi poco i giovani, convinti che sia sufficiente accontentarsi di poter acquistare oggetti, aggiungo io, spesso di scarsa utilità. Il superfluo, l’inutile e il futile hanno il sopravvento sull’utile e l’importante. Con la fine del socialismo, come nel resto del campo socialista, anche qui è crollata la vendita di libri e nessuno più conosce Puskin o Gogol, per non dire di autori albanesi come Kadare o Shuteriqi, orecchiati a scuola, ma non letti veramente.

Osman sostiene che compito dei marxisti è quello di creare le condizioni per il passaggio al socialismo di tutta l’umanità. Concordo, ma, citando Marx, ricordo che è nostro compito procedere in una concreta analisi dello stato di cose presenti e in ragione di ciò la prossimità della guerra mondiale, che vede gli Stati Uniti, la NATO e i loro alleati da un lato e la Cina, la Russia, l’Iran e i paesi bolivariani dell’America Latina dall’altro, obbliga i marxisti ad agire risolutamente per la pace e per un mondo multipolare. Quando ci lasciamo, tra abbracci e strette di mano, Osman mi ammonisce, citando Engels: “maledetto chi dice: questo è mio, perché questa affermazione è causa di tragedie”. Gli ripeto come l’intera mia vita sia orientata alla costruzione dell’eguaglianza tra tutti gli esseri umani e non a un privatistico e insensato accumulo personale. Prima di lasciarci ci guardiamo ancora una volta negli occhi con sincera e intesa commozione.

Il fucile di Walter Audisio, con il quale ha eseguito la sentenza del Comitato di iberazione Nazionale (CLN) contro Mussolini.
Il fucile di Walter Audisio, con il quale ha eseguito la sentenza del CLN contro Mussolini.

Nel pomeriggio torno a visitare il Museo Storico Nazionale e la Galleria Nazionale d’Arte. Nel primo lo spazio dedicato alla Resistenza permane, con tanto di fucile donato da Walter Audisio, con il quale ha applicato la sentenza del Comitato di Liberazione Nazionale in merito all’esecuzione di Benito Mussolini, le sale dedicate ai 45 anni di socialismo erano invece già sparite dieci anni fa. Alla Galleria resistono gli importanti dipinti del tempo socialista, di assoluta qualità e bellezza, opere di prepotente capacità comunicativa e vivissima tensione cromatica. L’auspicio è che possano restare dove sono, testimonianza forte e sincera di un tempo eroico e come sempre contradditorio, ma capace di diffondere eguaglianza e giustizia sociale e di traghettare dal feudalesimo alla modernità la società albanese.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.