Ispirato a L’étranger di Albert Camus, The Sun, the Sun Blinded Me ci porta nella Polonia odierna riprendendo un classico letterario in cui le contraddizioni dell’esistenza e della politica colonialista si intrecciano alla morale religiosa, riflettendo al contempo attorno alle attuali dinamiche migratorie.

The Sun, the Sun Blinded Me è davvero una delle belle sorprese della sessantanovesima edizione del Festival del Film di Locarno, presentato nella categoria Signs of Life. Prodotto nel 2016 tra Polonia e Svizzera, girato da Anka Sasnal e Wilhelm Sasnal, vede l’ottimo attore protagonista, Rafał  Maćkowiak, interpretare l’omonimo Rafał Mularz, moderno Meursault – protagonista de L’étranger – alle prese con un’esistenza monotona, spaesata e sfilacciata che solo le lunghe corse giornaliere riescono a contenere e riannodare. Acuta e brillante metafora dello spaesamento collettivo che oggi molte persone vivono di fronte alla frammentazione sociale, utilizzando routine articolate e ripetitive (paradigmatica la corsa come modo per sfogare fisicamente e mentalmente spaesamento e frustrazioni di molte vite) per non essere in balìa dei pensieri legati al futuro.

OC892480_P3001_214487Rafał riesce a condurre un’esistenza compressa nella quotidianità, vivendo come uno straniero nella propria stessa società: condizione che entra in crisi nel momento in cui, durante una corsa sulla spiaggia, incontra uno straniero esterno, un uomo di colore (chiamato però anche arabo durante il film, con un gioco di specchi che ci riporta al romanzo di Camus) che inizialmente ignora, spaventato dalla presenza che irrompe nella propria vita. Sfruttando appieno l’arte filmica, inizialmente i registi polacchi inducono gli spettatori a credere che il protagonista torni sui suoi passi, adoperandosi al fine di aiutare il migrante, che pur rimanendo in silenzio per tutto il film è una presenza fragorosa in relazione al mutismo relazionale con Rafał.

La svolta narrativa avviene con la scoperta, chiara per chi ha letto il libro, di come sono andate in realtà le cose sulla spiaggia. Accecato dal sole (anche se nella scena non è così chiaro), Rafał come Maursault uccide il migrante, il nero, l’arabo. Prima di questo chiarimento vi è una scena fortissima e toccante, dove il protagonista – a casa con lo straniero – cercando di uscire dalla porta d’entrata viene ripetutamente fermato dall’immigrato, dopo aver provato a liberarsene prima con i soldi e poi accompagnandolo a quello che sembra un centro per le domande d’asilo. Differenza rispetto alla totale insensibilità del protagonista del romanzo, ma anche manifesta incapacità di assumersi la responsabilità di fare delle scelte rispetto alla situazione, fuggendo dalle proprie responsabilità.

Proprio in questo credo stia la brillante metafora del film, che riprende ben settantaquattro anni dopo il romanzo uscito nel 1942, mostrando in un continuo gioco tra micro riflessione individuale e macro riflessione sociale – due aspetti indisgiungibili nel capire le tematiche del mondo attuale – l’incapacità di fare scelte e assumersi responsabilità, siano esse politiche o individuali.

Il volto della Polonia che i registi hanno scelto di mostrare nel film (e non si tratta certo di un unicum in occidente), è una nazione dalle sfaccettature razziste e moraliste, legata a una parte del cattolicesimo priva di coscienza sociale che non oltrepassa la propria immagine. Dall’iniziale morte della madre di Rafał e le lunghe processioni funebri, alle affermazioni di vecchi che imprecano perché il negro non tocchi e infetti i muri, alle continue battute del gruppo di docenti sull’ebola e le possibili infezioni portate da un collega neoassunto. Scene e pensieri di un paese e un tempo preoccupante per la paura che si trasforma in rabbia nei confronti del diverso.

Soprattutto in relazione alla morte della madre, riemergono i passi del romanzo, dove la problematica durante il processo finale sta nell’insensibilità del passivo Rafał/Meursault al capezzale della defunta madre, e non nell’uccisione del migrante. Una volta arrestato nel film, nella girandola degli interrogatori al protagonista, alla ex-compagna, al datore di lavoro, al prete, e altri, sarà questo il punto centrale. Il non onorare i morti, specialmente se della propria famiglia, è ancora ritenuto più grave della responsabilità nell’uccisione di un essere umano meno importante.

Affermazioni forti, provocatorie, ma come non pensare a quanto avviene oggi nelle dinamiche attorno a quella che viene definita crisi migratoria, legata evidentemente a doppio filo con le politiche imperialiste e neocolonialiste occidentali? Come non riflettere su un contesto dove l’indignazione esposta ai media e il pietismo sono più importanti dell’assunzione della responsabilità rispetto alle scelte riguardo alle migrazioni e alle possibili (!) soluzioni a quella che in occidente viene spesso istericamente definita come costante minaccia?

Un film coraggioso che prende le mosse da un romanzo importante, di cui in questa recensione sono evidentemente stati affrontati superficialmente pochi aspetti rispetto alla grande complessità delle tematiche. Forse però, da qualche parte, bisogna cominciare a parlarne in modo diverso. E l’arte, in questo senso, ha delle grandi responsabilità nell’accendere riflessioni.

Simone Romeo

Simone Romeo, classe 1993, è pedagogista e dottorando di ricerca in "Educazione nella società contemporanea" presso l'Università di Milano-Bicocca. Già consigliere comunale a Locarno per il Partito Comunista, collabora da diversi anni con sinistra.ch.