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I socialisti europei si estinguono. Il PS svizzero è al riparo?

Proponiamo di seguito la traduzione integrale dell’editoriale scritto da Sylvain Besson per l’edizione di venerdì 10 giugno 2016 del quotidiano svizzero in lingua francese Le Temps.

Mentre nei grandi paesi del continente i socialdemocratici crollano, il PS elvetico continua il suo simpatico cammino, mischiando pragmatismo e posizioni da “vecchia sinistra”. Ecco delle spiegazioni.

La sinistra europea è nel pieno di un marasma. In Francia, Germania e Spagna dei partiti socialisti che potevano contare sul sostegno del 40% dell’elettorato si ritrovano declassati al 20% dei voti, o meno. Il campo progressista si trova schiacciato fra una sinistra radicale, euroscettica e antisistema, e un’ala liberal-bobo (BOurgeois-BOhème, borghesia acculturata e “di sinistra”; NdT), che resta fermamente ancorata alla globalizzazione. Mantenere questi poli opposti all’interno di partiti omogenei diventa eccessivamente difficile.

Mentre la crisi dei socialdemocratici si aggrava, le sue cause appaiono più chiare. L’elettorato operaio, distrutto dalla globalizzazione, è stato rubato loro dai populisti. I socialisti, prigionieri del loro internazionalismo (anche se sarebbe meglio dire del loro cosmopolitismo; NdT), non hanno saputo opporvisi. Dallo stesso canto, partigiani della solidarietà umana, i socialdemocratici non hanno voluto ammettere i disagi di una parte della loro base nei confronti delle tematiche migratorie.

Il doppio linguaggio li punisce. In Francia “il PS è gestito da Macron dopo essere stato eletto grazie a Mélenchon”, riassume l’eletto socialista vodese Pierre Derremontet. Imposta dalle realtà del potere, la virata social-liberale resta spesso mascherata da una retorica passatista, rinchiudendo questi partiti in una menzogna permanente.

I socialisti svizzeri, in questo contesto, se ne escono sorprendentemente bene. Il malessere dei loro fratelli europei sembra non esser loro concernente. Dapprima perché essi sono già ridotti al minimo. Con il 18,8% dei voti alle ultime elezioni federali, la loro piccolezza li protegge da un declino troppo pronunciato. Il loro statuto permanente di junior partner in un Consiglio federale di destra li condanna al pragmatismo. Anche a livello locale una cultura di gestione ben diffusa li distoglie da ogni eccesso di dogmatismo. E dal momento che la Svizzera non è membro dell’UE, essi sono meno spaccati fra l’eurofilia dei loro dirigenti e il desiderio della base di uno Stato-nazione protettore.

Ciò malgrado, il PS svizzero non è al riparo del fuoco nemico. Il conflitto latente il vodese Pierre-Yves Maillard e il presidente del PSS Christian Levrat è emblematico. Il primo ha preso atto della debolezza della sinistra a livello nazionale e vuole realizzare il “socialismo in un solo cantone”, su una base consensuale. Il secondo, reso minoritario da una destra dura dominante al parlamento, vuole incarnare un’opposizione stridente, su una linea di difesa del servizio pubblico e delle conquiste sociali. Lo iato fra queste due posizioni è aggravato da quando il PS non può più contare sul suo vecchio alleato, il PDC (Partito Democratico Cristiano: il PPD nazionale; NdT), per centrare il dibattito politico nazionale.

Ma ciò conta poco in rapporto a un altro problema: la difficoltà del PS svizzero a entusiasmare, il suo manco d’immaginazione e di apertura alle sperimentazioni e alle riforme audaci. Mancando un progetto portante, rischia di diventare un partito settoriale incentrato sulla difesa dei funzionari. Questa debolezza concettuale è ciò che veramente lo ancora alla crisi che i suoi vicini europei stanno vivendo.