Le lezioni dimenticate del Partito Socialista Autonomo

L’articolo-saggio che segue è apparso all’interno del 4° numero di #politicanuova (Giugno 2014), quadrimestrale marxista di approfondimento edito dal Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC)

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Più di vent’anni sono ormai trascorsi dal Congresso di Mendrisio del 1987, durante il quale gli iscritti, riuniti in assemblea, misero fine alla ventennale esperienza politica del Partito Socialista Autonomo (PSA). Vent’anni che hanno visto l’emergere di un nuovo blocco storico, segnato da cambiamenti epocali non solo a livello geopolitico (fine della Guerra Fredda e del bipolarismo, egemonia americana e insorgenza della potenza cinese) o economico (svolta neoliberista e finanziarizzazione strutturale dell’economia), ma anche a livello culturale e sociale (rivoluzione tecnologica e informatica, globalizzazione accelerata). Per l’intera sinistra europea l’inizio di questa nuova fase storica ha comportato l’abbandono di vecchi paradigmi concettuali, considerati ormai sorpassati, la “fine delle ideologie”, il tramonto definitivo dell“Ottobre” (inteso come riferimento simbolico e ideologico), e un’integrazione sempre più marcata in logiche del tutto estranee alla tradizione del movimento operaio; insomma, un generale senso di smarrimento e rassegnazione. Lo slogan del terzo congresso del PSA (1977), “Rafforziamo l’unità e l’azione della sinistra di classe”, sembra appartenere ad un’epoca ormai chiusa, ad un passato che noi giovani non abbiamo nemmeno avuto il tempo di conoscere. Il concetto stesso di sinistra di classe appare per certi versi desueto e arcaico, tanto la sinistra europea ha avuto fretta di strapparsi i vecchi abiti “ideologici” di dosso, nel corso di questi ultimi vent’anni.

Tobia Bernardi, autore dell'articolo
Tobia Bernardi, autore dell’articolo

Ci si può dunque chiedere che senso ha riflettere oggi, in una nuova fase storica, ma sopratutto in un contesto politico completamente diverso, sulla ventennale esperienza politica del PSA. Può la vicenda di questo partito insegnare ancora qualcosa alla sinistra attuale, ticinese e confederata? A mio avviso, sì. E questo non solamente sotto il profilo storico-culturale (il PSA in quanto parte importante del patrimonio storico-politico del nostro Cantone (1)), ma anche da un punto di vista politico. Alla luce dei comportamenti e della prassi politica di una buona parte della sinistra nostrana d’oggigiorno, alcune tra le lezioni di Carobbio e compagni rimangono infatti tremendamente attuali.

Riflettiamo dunque – con l’aiuto dell’opera di Pompeo Macaluso, Storia del PSA (2) – su questa particolare esperienza politica, che combinò elementi comuni all’insieme della sinistra europea a tradizioni e motivazioni specificatamente svizzere e cantonticinesi.

LA CONTESTAZIONE AL “SOCIALISMO CONSERVATORE”

Nato nel 1969 in seguito ad una scissione dal Partito Socialista Ticinese (PST), il PSA rappresentò in qualche modo l’espressione ticinese di una crisi comune all’insieme della sinistra europea, la crisi di quello che Seymour Lipset definisce il “socialismo conservatore” (3), in riferimento ad un tipo di socialismo e di partito – quello socialdemocratico occidentale degli anni ’50-’60 – perfettamente integrato nelle logiche e nei sistemi politici borghesi, che aveva spesso formalmente rinunciato al “programma massimo”, alla trasformazione radicale (anche non violenta) dei rapporti di produzione in senso socialista, e che si accontentava del “programma minimo”, ovvero di una serie di riforme che, se miglioravano parzialmente la condizione dei lavoratori, restavano tuttavia all’interno di rapporti di produzione capitalistici. Un socialismo, dunque, spesso integrato nelle logiche di potere (4), sempre meno forza di contestazione e di lotta sociale, avviato un passo dopo l’altro verso l’abbandono del marxismo. Prese corpo così, anticipando anche se di poco quella che sarà la grande esplosione della contestazione giovanile del ’68, una corrente di militanti ed intellettuali socialisti che, non volendo rinunciare ai principi cardine del marxismo e della lotta di classe, intendeva porsi ancora come obiettivo l’edificazione di una società radicalmente diversa (5).

Il Ticino si prestava particolarmente bene al “socialismo conservatore”, ed in effetti si potrebbe elevare il Partito Socialista Ticinese ad esempio paradigmatico di questo fenomeno politico. Inserito in un sistema consociativo come quello Ticinese e nelle conseguenti logiche clientelari, scarsamente marxista, nato piuttosto sulle vecchie linee di frattura (chiesa vs laicità, centro vs periferia) che su quelle dell’epoca prettamente industriale (lavoro vs capitale), sprovvisto di un forte proletariato indigeno a causa dell’industrializzazione particolare del cantone e dell’abbondante afflusso di proletariato straniero; il partito basava la sua politica negli anni ’50-’60 sull’alleanza con il PRLT – la cosiddetta “Intesa di sinistra” – che si reggeva ancora sul collante, vecchio di 30 anni, dell’anticlericalismo comune. L’analisi che Pompeo Macaluso svolge, attraverso lo “schema degli incentivi” del politologo Lange, dimostra efficacemente che tipo di partito fosse il PST: essenzialmente basato su incentivi di “conseguimento dei fini” (il mantenimento dell’alleanza con i Radicali e del seggio in CdS), o su incentivi di carattere associativo (pranzi, convegni del Ceneri, feste di partito, etc), esso non distribuiva praticamente nessun incentivo di identità a carattere ideologico. Era infatti una formazione che aveva da tempo rinunciato a qualunque idea di vero cambiamento sociale, che si accontentava spesso di spartirsi cariche pubbliche e che faceva pochissima opposizione alle politiche borghesi di liberali e conservatori.

Werner Carobbio
Werner Carobbio

Contro questo modo di fare politica si sviluppò anche in Ticino una corrente di dissenso interna al Partito, che cominciò a far sentire la sua voce verso la fine degli anni ’50, guidata dalle abilità politiche di due giovani socialisti, Pietro Martinelli e Werner Carobbio. Se del primo vanno ricordati l’impegno inesauribile in Gran Consiglio e il grande carisma politico, a Werner Carobbio dev’essere reso un vero e proprio omaggio: instancabile lavoratore (6), politico d’eccezionale caratura, fu essenzialmente grazie alle sue abilità ed energie che il PSA poté rimanere relativamente coeso e unito nonostante alcune evidenti difficoltà organizzative ed ideologiche.

La corrente prese largamente spunto dalle idee, profonde e curate, di un altro giovane intellettuale socialista, Guido Pedroli, che purtroppo, dopo aver dato il suo contributo teorico e pratico allo svilupparsi di un dissenso interno al PST, morì nel 1962 e non poté dunque partecipare alla fondazione del PSA. Se si rileggono i primi numeri di Politica Nuova (7), ispirati alle idee del giovane filosofo ticinese, si capisce molto bene quali fossero le critiche mosse da questi giovani alla direzione del PST, e quali invece le idee chiavi dalle quali bisognava ripartire.

Prima di tutto, riluttanza all’abbandono della lotta di classe e del marxismo (accompagnata però da una critica al regime sovietico, realtà immobilista e burocratizzata); di conseguenza, lotta feroce al clientelismo (8) e al sistema politico consociativo che, sebbene avesse il vantaggio di permettere ai socialisti di esercitare una minima influenza in governo, faceva oggettivamente gli interessi dei partiti borghesi, mantenendo la “società così com’era”, attraverso una prassi politica essenzialmente gestionaria e mai progettuale (in tal senso vanno letti i ripetuti accenni sul passaggio da una “politica delle cose” ad una “politica delle idee”). La partecipazione del PST a questo sistema di governo ne aveva praticamente “corrotto l’anima”, rendendolo incapace di uscire dalle stesse logiche consociative e borghesi che avrebbe dovuto combattere.

A questo tipo di politica – che aveva trasformato il PST in un partito di oligarchi (quello dei “compagni che contano”, in parlamento o vicini alla dirigenza), contribuendo così alla spoliticizzazione della classe operaia e dell’intera società ticinese – questi giovani contrapponevano una vera opposizione di classe, una ripoliticizzazione della società e soprattutto un nuovo modo di fare politica, inteso come una ricerca costante, teorica e pratica, di nuove vie e di nuove strade per il socialismo, applicabili nella realtà cantonale e non utopiche o precostituite, che non avessero però rinunciato ad una riflessione su una società più giusta e ad una trasformazione radicale del tessuto socio-economico.

Raggruppata attorno al periodico Politica Nuova, sospinta dall’avvento del ’68 – che comportò anche in Ticino nuove forme di mobilitazione e di partecipazione, stimolando, attraverso la contestazione giovanile, la ripoliticizzazione della società ticinese – e approfittando anche di altre divisioni interne al PST (pur di diversa matrice, come la quasi secessione della sezione del Mendrisiotto), la corrente di dissenso, che fino ad allora aveva cercato di adottare una linea “entrista”, si dimise dalla direzione, fu espulsa dal Partito e, di risposta, fondò, con la Costituente di Mendrisio del 1969, quello che sarebbe diventato il Partito Socialista Autonomo.

CONTRADDIZIONI E PREGI DI UN PARTITO CHE HA RIDATO SPERANZA AL SOCIALISMO

Tracciare nei dettagli la ventennale esperienza politica del PSA risulta sfortunatamente impossibile. Ma anche la redazione di un bilancio è altrettanto problematica.

Pur cercando di dare continuità al progetto iniziale, il Partito dovette più di una volta riorientarsi ideologicamente, ridare nuove forme a ideali e obiettivi iniziali che sussistevano – certo – come scopo ultimo verso cui tendere, ma che apparivano difficilmente realizzabili sul corto periodo, di fronte alle acerbe conformazioni della realtà politica ticinese. Da qui la ricerca di nuove vie, da qui anche la partecipazione e l’integrazione crescente nel sistema che si voleva combattere, percepita sempre di più come l’unico modo per poter “contare qualcosa”, e anche solo per poter esistere come partito all’interno della realtà ticinese.

Non è in ogni caso eludibile il gran servigio che il PSA rese non solo alla sinistra ticinese ma a tutta la realtà politica nostrana. Attirando l’attenzione sulle pratiche clientelari e sulle disfunzioni della cultura politica ticinese, il PSA spinse infatti tutti gli altri partiti, compreso il PST, a dover rivalutare ed adattare la loro prassi politica. Praticando un’opposizione sistematica in Gran Consiglio e utilizzando Politica Nuova come una tribuna di denuncia e approfondimento insieme, il PSA favorì senz’alcun dubbio, sopratutto durante i suoi primi anni di vita, una certa ripoliticizzazione della sinistra e della società ticinese. Le pagine di Politica Nuova e i documenti della direzione rappresentano in tal senso delle validissime fonti di informazione sulla realtà politica, economica e sociale del Canton Ticino di quel tempo; e l’energia politica di alcuni militanti permise di diffondere tali contributi alla popolazione ticinese. Spezzando il clima di accettazione acritica che contraddistingueva la prassi politica del PST, sostenendo lotte nelle fabbriche e nelle scuole, riportando l’attenzione delle masse lavoratrici sul tema della rottura della “pace del lavoro”, il PSA contribuì a far uscire l’intera sinistra ticinese (anche sindacale) da una fase di completo immobilismo.

Ma il PSA non poté assolvere tutti i suoi compiti: sorto con il desiderio di ripoliticizzare la società e di rimettere le masse lavoratrici al centro del processo decisionale, si scontrò con la debole mobilitazione di queste ultime e si avviò anch’esso sulla strada dell’oligarchia e della delega. Rinunciò progressivamente ad una presenza suoi luoghi di lavoro, alle lotte extra-parlamentari, e si dovette accontentare dell’azione istituzionale, perdendo gradualmente ogni carattere rivoluzionario. Con l’ingresso di Pietro Martinelli in Consiglio di Stato, l’integrazione fu completa, e il PSA si ritrovò a partecipare allo stesso sistema consociativo che tanto aveva combattuto in origine.

Contestazione studentesca a Lugano
Contestazione studentesca a Lugano

Ma la vicenda del PSA non è solo vicenda politica, è anche vicenda umana, vicenda generazionale. Appartiene al vissuto di una generazione particolare, quella dei grandi sogni e del grande idealismo sessantottino, che si manifestò anche in Ticino attraverso un nuovo tipo di mentalità giovanile, più aperta al mondo, alle nuove sfide e ai cambiamenti, desiderosa di cambiare quella mentalità insulare che contraddistingue tutt’oggi il cantone. Vicenda umana di una particolare generazione e vicenda politica di un particolare partito si amalgamano dunque in quella che fu la parabola esistenziale del PSA: una curva che partì verso l’alto, verso l’altissimo, ma che dovette progressivamente inclinarsi, sotto il peso crescente della realpolitik e dell’immobilismo cantonticinese, fino all’appiattimento totale e all’accettazione, più o meno rassegnata, della realtà.

Infine, vicenda geografica, territoriale. Perché indipendentemente da tutti gli accenti internazionalisti e dagli sforzi fatti per allacciare rapporti politici oltre Gottardo e oltre frontiera, il PSA rimase essenzialmente un’esperienza politica ticinese, confrontata con un particolare sistema politico, un particolare territorio ed una particolare mentalità. Come non citare in questo senso l’esperienza biografica di Plinio Martini, militante senza dubbio d’eccezione, che dovette agire all’interno di una realtà specifica e difficile (per qualsiasi socialista) come quella valmaggese?

Tuttavia, indipendentemente da un bilancio critico globale, ritengo che lo studio della vicenda politica del PSA possa se non altro fornire qualche spunto di riflessione, qualche “lezione”, alla sinistra contemporanea. Si ha quasi l’impressione che i motivi e le idee che spinsero questi giovani politici verso un’opposizione di diverso tipo siano stati dimenticati troppo in fretta, forse anche dagli stessi protagonisti, e che la sinistra nostrana non sia stata capace di farne tesoro.

RIECCHEGGIA ANCORA IL MONITO DEL PSA

In primo luogo, la critica al consociativismo. In quest’ambito il PSA volle praticare, sopratutto durante i suoi primi anni di vita, una politica di opposizione strutturale al sistema politico e partitico cantonticinese. Questo non significava l’abbandono delle istituzioni, né una prassi politica extra-parlamentare, ma semplicemente il rifiuto di un sistema di governo (quello proporzionale) che, nonostante avesse il vantaggio politico di garantire equilibrio e governabilità, per la sua stessa composizione e per il suo stesso funzionamento non poteva essere veramente progettuale e non poteva prospettare nessun cambiamento radicale della società in senso socialista. Con le parole di Giorgio Canonica, «l’elezione proporzionale del governo costituisce un blocco all’evoluzione dei rapporti di forza politica, occulta i conflitti di classe a livello politico, mistifica l’opinione popolare, integra le forze opposizionali nell’ideologia del consenso» (9).

La critica al consociativismo operata dal PSA negli anni ’60-’70 risulta tremendamente attuale. Se ancora ritiene di rappresentare un’alternativa credibile alla società borghese e capitalista, l’intera sinistra ticinese, svizzera e anche europea, dovrebbe riflettere sul grado di integrazione raggiunto all’interno dei rispettivi sistemi politici liberal-democratici. E questo come necessaria conseguenza di un postulato politico fondamentale: non si può proporre un sistema politico ed economico alternativo qualora ci si amalgama organicamente e allegramente a quello esistente.

Pur essendo tristemente comune all’intero Occidente, il problema della completa integrazione e dell’accettazione, da parte della sinistra, dei dogmi fondamentali della democrazia liberale (convalida del capitalismo, rifiuto della lotta di classe, compromesso con le differenti forze sociali, etc) si manifesta con particolare evidenza in Svizzera ed in Ticino a causa – logicamente – del particolare sistema politico consociativo. Per quante volte ancora dovremo vedere ministri “socialisti” proporre misure anti-umane come quelle propugnate da Simonetta Sommaruga nel quadro dell’ennesima riforma delle politiche d’asilo? Quante volte ancora un ministro socialista – chi vuole intendere, intenda – proporrà tagli nell’istruzione pubblica, andando esattamente in direzione opposta a quelli che dovrebbero essere gli obbiettivi politici auspicabili? Qualche mese fa, nel quadro del dibattito sull’elezione diretta del Consiglio Federale, Micheline Calmy-Rey – apportando inaspettatamente il suo sostegno all’iniziativa – attirava l’attenzione dei militanti socialdemocratici sui mille compromessi inevitabili che ogni candidato socialista doveva fare coi partiti borghesi per poter assicurare la sua elezione.

Benché una candidatura e una partecipazione alle elezioni governative possano essere utili da un punto di vista strategico, fornendo ai cittadini delle alternative anti-sistema e fungendo da cassa di risonanza (è stata infatti questa la scelta del Partito Comunista durante le elezioni cantonali del 2011), la totale integrazione della socialdemocrazia elvetica nelle logiche consociative e collegiali dovrebbe far riflettere. Se questi sono il modo e la strategia che la sinistra ha scelto per opporsi alle logiche di potere dominanti, permetteteci di dissentire. Non solo risulta impossibile, attraverso questa prassi politica, propugnare un vero cambiamento; ma è evidente che una tale strategia rende la vita più facile alla destra borghese e reazionaria che, attraverso un abile procedimento mediatico e culturale, fa passare l’idea che “tanto sinistra e destra è uguale”, avvantaggiando così il qualunquismo, l’appiattimento sul pensiero unico neo-liberale, la spoliticizzazione.

Serve ancora una sinistra che, pur di rinunciare alla governabilità, ai seggi in CdS e in CF, pensi all’estendersi della sua base elettorale e militante tra i giovani, gli scontenti, i disoccupati, e tutte le forze potenzialmente rivoluzionarie della società. Serve ancora una sinistra che attiri l’attenzione delle masse sull’incompatibilità esistente tra gli interessi dei lavoratori (e della stra-grande maggioranza della popolazione) e quelli del capitale e dell’infima minoranza che lo gestisce; altrimenti detto, che rimetta la lotta di classe al centro del suo agire e del suo pensare politico.

Attraverso le colonne di Politica Nuova, il PSA si chinò anche su altri aspetti, quali, per esempio, l’internazionalismo e l’anti-imperialismo, più che mai attuali nel Ticino e nella Svizzera dei giorni nostri, che vivono una delle fasi più tristi della loro storia, con una destra nazionalista e xenofoba largamente trionfante. Se i danni dell’economia mondializzata e neo-liberista sono ormai sotto gli occhi di tutti, non saranno certo le politiche xenofobe volute da una parte del padronato (UDC e Lega) a risolvere i problemi della libera circolazione; le votazioni completamente insensate su minareti, burqa ed espulsione dei criminali stranieri lo dimostrano ampiamente. Tuttavia, sono proprio state le politiche strutturalmente filo-europeiste propugnate dalla socialdemocrazia nostrana ed europea, ad aver favorito e provocato lo smantellamento dei diritti sociali e sindacali dei lavoratori indigeni, favorendo così il loro spostamento a destra. Se l’internazionalismo deve dunque essere rimesso al centro del dibattito politico, per contrastare la “paura del diverso” che serpeggia tristemente in Occidente, esso dev’essere obbligatoriamente inserito in una visione di classe delle relazioni internazionali. Se manca quest’ultima, l’internazionalismo non può che trasformarsi in un transnazionalismo che, più che essere benefico per i lavoratori e gli sfruttati del mondo intero, serve essenzialmente gli interessi del capitale.

Va ulteriormente sottolineato il ruolo del PSA nell’opera di ripoliticizzazione della società ticinese, una battaglia impari già all’epoca. Contrastare il pensiero unico dominante e vincere l’apatia della popolazione attraverso le colonne di un giornale, con poche risorse finanziarie disponibili, fu una sfida immensa, che, logicamente, si poté svolgere solo in parte. Attualmente, un tale intento politico appare ancor più arduo, con l’emergere della telecrazia e con l’avvento della comunicazione audiovisuale. L’egemonia culturale neo-liberista, in tal senso, poggia su basi solide, che potranno essere erose solo con un intenso lavoro di lungo periodo. Ma ciò non esclude – anzi – l’impellente necessità di agire fin da subito e non giustifica, in nessun caso, la scelta intrapresa dall’intera socialdemocrazia europea durante gli ultimi vent’anni, ovvero di un appiattimento e di un accettazione acritica del pensiero unico dominante.

Politica Nuova forniva infatti, settimanalmente, analisi approfondite, sia a livello teorico-ideologico che politico, e ciò proprio perché i redattori erano consci che una qualsivoglia forma di ripoliticizzazione delle masse non avrebbe avuto luogo qualora queste non avessero potuto fruire di strumenti d’analisi adatti. Al giorno d’oggi contro-informazione, analisi critica e denuncia sembrano viceversa essere dei termini scomparsi dal vocabolario della sinistra ticinese e confederata. La ripoliticizzazione della società ticinese, intesa come riappropriazione di un senso critico perduto, non può però che passare da qui, da una contro-informazione costante e puntuale, da un’analisi critica e sufficientemente approfondita della società in cui viviamo
#Politicanuova, edito dal Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC), nasce proprio allo scopo di risvegliare i cittadini ticinesi dal torpore letargico nel quale sono entrati da ormai troppo tempo; permetter loro di accedere a notizie e ad analisi altrimenti ignorate dai massmedia dominanti; unica soluzione possibile per instaurare nel nostro paese una vera e propria democrazia, che sia degna di questo nome, in cui il cittadino sia veramente informato e agisca con cognizione di causa.

CONCLUSIONE…PER IL MOMENTO

Schermata 2015-02-10 alle 18.42.55Le “lezioni” che il PSA, durante la sua breve esistenza, ha impartito sono innumerevoli, e tali da dover essere sviluppate in uno spazio ben più ampio. Non dimentichiamoci però l’ultima e più importante lezione che i Socialisti Autonomi ci hanno trasmesso: nel cambiamento, perché esso possa essere davvero realizzabile, bisogna crederci. Ed è forse proprio questo che manca alla sinistra odierna: affiatamento, fiducia e progettualità. Il Partito Comunista della Svizzera Italiana è una formazione composta in gran parte da giovani, i quali, forse, posseggono fin troppe speranze e progetti. Riteniamo però che siano essi che ci spingono, giorno dopo giorno, ad impegnarci costantemente nella realtà che ci circonda; ma sopratutto pensiamo che, senza un progetto alternativo, la sinistra (quella vera) non ha più nessuna ragione di esistere.

Un altro mondo è possibile, e forse la sinistra europea dovrebbe solo crederci un po’ di più.

Tobia Bernardi, laureando in Storia (Master) all’Università di Friborgo

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Note

(1) In un panorama politico immobilista come quello Ticinese – in cui, ancora nel 1987, i tre partiti storici (PST, PRLT, PPD) raccoglievano 87% dei consensi – capiamo bene perché l’apparizione di un nuovo partito, il suo consolidamento e la sua entrata in governo (1987), rappresentarono un fenomeno di importanza considerevole per la vita politica del Novecento ticinese. Cfr. GHIRINGHELLI, Andrea, CESCHI Raffaello: Dall’Intesa di sinistra al governo quadripartito (1947-1995), in: CESCHI, Raffaello (a cura di): Storia del cantone Ticino, il Novecento, Bellinzona, 1998.

(2) Pompeo Macaluso, Storia del Partito Socialista Autonomo, Armando Dadò, Locarno, 1997

(3) LIPSET, Seymour: «The Changing Class Structure and Contemporary European Politics», Daedalus, 1964, n.1, p. 296.

(4) L’abbandono del “programma massimo” coincise non a caso con l’entrata in governo di molti partiti socialdemocratici. Il caso della Svizzera è particolarmente evidente: con il Programma di Winthertur del 1959, il PSS eliminava gli ultimi riferimenti al “rovesciamento del capitalismo”, ed entrava successivamente in governo come un partito di opposizione moderata.

(5) Corrente rappresentata dal PSIUP italiano, dal PSU francese, etc.

(6) Leggendo i verbali delle sedute dell’Ufficio Politico o di quelle del Comitato Cantonale, o nel conteggio delle presenze al CC (data 1981, 32 presenze su 32 sedute), l’impegno, la costanza e l’assiduità di Carobbio non possono che sbalordire. Ciò è parimenti visibile nelle comunicazioni di Partito (tutte firmate e redatte dallo stesso Carobbio), nella mole impressionante di documenti prodotti, nei comizi tenuti, eccetera. Senza dubbio il modo di funzionamento del partito (che, nonostante gli sforzi teorici in senso contrario, rimaneva nella pratica abbastanza verticista) e la scarsa militanza della base aiutarono la centralizzazione delle competenze nelle mani di Carobbio e di pochi altri, ma è doveroso sottolineare come il Segretario si fece sempre trovare pronto, e disposto a consacrare tempo ed energie per risolvere i mille problemi del Partito.

(7) Periodico del PSA. Dal 2013 il Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC) ha iniziato il progetto editoriale di #Politicanuova, che si vuole quadrimestrale di approfondimento marxista.

(8) Con le parole del Pedroli, «per poter combattere il clientelismo nel paese, dobbiamo innanzitutto combatterlo nel partito. La nomina di un socialista in un’amministrazione pubblica non è necessariamente una vittoria politica. Il partito non è un’agenzia di collocamento!» Cfr. PEDROLI, Guido: Per una politica di sinistra del PST, testo dattilografato.

(9) Risoluzione di Giorgio Canonica in vista del 4° congresso ordinario, 1982. (Archivio FPC, Fondo Werner Carobbio)

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