I nostri anni, vendetta contro le brigate nere

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Attraverso gli occhi di Alberto e la voce di Natalino (nome di battaglia di Pasquale), partigiani ormai in pensione, ripercorriamo le vicende della Resistenza che li avevano uniti nella lotta negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale.

Nell’intrecciarsi delle sequenze in ospizio, dove Alberto parla poco ma osserva molto, degli stralci d’intervista a Natalino nel casolare in montagna e dei continui e ben congegnati ritorni ai fatti di quegli anni scopriamo una memoria ancora viva, ma calpestata dalla situazione attuale del “”paese di merda”” dove “queste cose non interessano più noi [partigiani ed ex-partigiani], e interessano ancor meno agli altri”.

Natalino ritroverà la rabbia e la carica con l’incalzare delle domande, mentre Alberto comincerà a fare la conoscenza di un’altro ospite della casa di riposo. Paralitico, con difficoltà respiratorie, Umberto si vede dunque riversare addosso una prima carrellata di ricordi: il Grande Torino, lo scudetto rubato del ’27, il rimontone finito in 7-1 con la Roma, Superga, le giovani leve, … . Nel percorso di conoscenza reciproca l’apice è raggiunto durante un’uscita in montagna, quando visitando una cappella (edificio cui Alberto non è mai stato uso) stipata di ex-voto per scampate fucilazioni, allo sfogo di Alberto sulle ignominie compiute dalle truppe repubblichine, Umberto ribatter con un laconico “”era la guerra”, anni bui per tutti”. Da lì alla folgorante scoperta, il passo è breve: l’anziano altri non è che l’ufficiale fascista che fece torturare e uccidere i compagni di Alberto e Natalino più di 50 anni prima.

I due amici decideranno quindi, dopo un confronto verbale in cui per la prima volta Alberto abbandona i modi pacati per interpretare un molto più accorato e teatrale discorso, di procedere alla vendetta eliminando l’ex-capitano delle brigate nere inserendosi armati nella casa di riposo.

Il viaggio è incerto e goffo, mentre la tensione sale, dopo un indesiderabile incontro con i carabinieri gli aspiranti omicidi si trovano confrontati con l’ancora più inatteso nuovo che avanza: in un pittoresco botta e risposta di mimica facciale il rock irriverente portato di forza dallo stereo a tutto volume di un giovane automobilista diventerà la colonna sonora dell’atto conclusivo della vicenda. Raggiunta la casa di riposo, una pistola scivola di tasca e un’infermiera corre a dare l’allarme. Mentre attendono l’ormai inevitabile arresto, è ancora Alberto a lanciarsi in un graffiante e gesticolato discorso, la sentenza di condanna per il paralitico ufficiale fascista. Preme il grilletto, due, tre volte, ma il meccanismo non funziona e i nostri vengono condotti in manette verso i titoli di coda. Ma i volti sono distesi, e in un momento di catarsi collettiva anche i partigiani morti sui monti sorridono: lo spirito non è stato scalfito, né dagli anni né dallo sfacelo socio-politico.

L’atmosfera, nell’aspetto della pellicola, è ben gestita dal regista Daniele Gaglianone, a ogni tempo narrativo corrisponde un particolare approccio di camera e di lavorazione (“invecchiati” i flash-back e definiti i primi piani d’intervista). Un accantivante approccio nel sonoro che emerge già nell’opera prima di Gaglianone (L’orecchio ferito del piccolo capitano, pubblicato cinque anni prima di I nostri anni, nel 1995) contribuisce da ultimo a creare nel complesso un’opera assolutamente coinvolgente e stimolante, utile a non dimenticare e a riflettere su questo fondamentale pezzo di storia italiana ma soprattutto umana.

Amos Speranza

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su: TicinoLibero.ch

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