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Censurata la più bella del nord: l’Islanda e la rivoluzione!

Fiocco rosso per l'Islanda

Dobbiamo viaggiare fino nei pressi del circolo polare artico per trovarla: si sta distinguendo come la più bella del nord ma nessuno ne parla. È l’Islanda, un paese che possiamo facilmente definire vulcanico, non fosse che per le gesta del vulcano Eyjafjallajökull, che ha reso questo paese di soli 320’000 abitanti celebre in tutto il mondo. E se le ceneri eruttate dal suddetto vulcano islandese hanno impiegato poche ore ad oscurare i cieli di mezza Europa, bloccando il traffico aereo su buona parte del continente, ancora più forte e capillare è stata la capacità da parte del sistema mediatico – come se ci trovassimo di fronte a una sorta di botta e risposta – nell’oscurare la tenacia e la risolutezza del popolo islandese.

Ma di che stiamo parlando? Ebbene, pochi sanno quanto sta succedendo nel paese del ghiaccio, ma per comprendere al meglio quale sia l’eccezionalità dei fatti islandesi occorre fare un passo indietro, fino al 2008, l’anno dello scoppio della crisi che stiamo ancora pagando al giorno d’oggi. In tutta Europa – Svizzera compresa – le conseguenze del crac finanziario e dello scoppio delle bolle speculative hanno portato all’accumulo di una serie di debiti impressionanti da parte delle banche, che sono stati colmati dai vari stati accollando tutto il peso della crisi su chi di fatto non ha concorso in alcun modo a causarla, vale a dire i salariati: in estrema sintesi ciò significa che a seguito di queste manovre sono piovuti i piani di austerity, più o meno espliciti, che hanno generato logicamente un circolo vizioso fatto di tagli allo stato sociale e ai servizi pubblici, e di precarizzazione delle condizioni di lavoro.

Arriviamo quindi al dunque. Di fronte ad una simile situazione sorgerebbe spontaneo gridare all’ingiustizia e pretendere la severa messa in dubbio di un intero sistema economico che sta portando la nostra società – causa i suoi deficit non solamente congiunturali, bensì strutturali – al collasso sociale, ma niente da fare: la reazione non giunge e le manovre di austerità passano, paese per paese. Fino ad un giorno ben preciso, quando spunta l’eccezione, e l’esempio viene dal paese che non ti aspetti. È il 6 marzo del 2010: ci pensa proprio l’Islanda a rompere il silenzio. Il referendum popolare che chiede di non pagare i debiti delle banche ottiene una vittoria schiacciante toccando vette del 93% di consensi, quando intanto i politici elvetici hanno già varato a tempo record un piano di salvataggio che tra Confederazione e Banca Nazionale Svizzera va a sostenere UBS con quasi 70 miliardi di denaro pubblico.

Ma gli islandesi non si limitano a ciò: oltre alla dichiarazione d’insolvenza del debito, scattano i mandati di cattura internazionali per i banchieri che hanno concorso al crac finanziario ed economico, giungono le dimissioni dell’intero governo, vengono nazionalizzate le principali banche commerciali e viene costituita un’assemblea popolare incaricata di elaborare ex-novo la costituzione, la quale pubblica le bozze online in maniera tale che attualmente qualsiasi cittadino possa concorrere con i propri spunti alla realizzazione della stessa, all’insegna del principio del crowdsourcing.
Una vera e propria lezione di sovranità popolare, monetaria e di democrazia diretta insomma: un’alternativa alla tragedia greca dei piani di austerity, voluti da un soggetto sempre più palesemente antisociale come l’Unione Europea, dal sapore quasi rivoluzionario.

Pensiamo un po’ che potrebbe venirne fuori se i popoli di tutto l’Occidente prendessero spunto dall’esperienza di questa bella nordica. Sicuramente qualcosa di molto scomodo per chi, nonostante un reiterarsi di fallimenti e collassi vari, continua a tenersi ben saldo ai posti di controllo di un sistema economico che continua a vedere nell’accumulo dei profitti una priorità e un dogma irrinunciabile.
Per cui non ditelo troppo in giro…

Janosch Schnider

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